Estate Felici

Civico 201 di Corso Santi Felice e Fortunato

Non sono nato in questo lato della città. Né tantomeno vi sono cresciuto. Il mio nido sicuro era situato in zona Stadio Menti ma, per cinque lunghi anni, il destino mi ha chiamato a respirare l’aria di Vicenza Ovest, dove corso Santi Felice e Fortunato lascia il posto a viale Verona. I primi anni ’70 mi hanno visto scendere tutte le mattine dall’autobus numero 1, davanti a Sartea, con la pila di libri legati stretti da un grosso elastico. Su tutti troneggiava l’immancabile diario Vitt. La cinghia di gomma era scarabocchiata dalle firme e dai disegnini delle compagne di classe, che cercavano di imitare, senza successo, le vignette di Jacovitti. All’uscita dall’Istituto Tecnico Commerciale “Ambrogio Fusinieri” di via D’Annunzio, dopo le 13.00, ci si accalcava alla fermata davanti all’osteria Marechiaro in attesa dell’autobus per il ritorno. Spesso non riuscivo a salire sulla prima corsa, in quanto ero risultato tra i perdenti nella calca scatenatasi sui gradini del mezzo. Poco male. Mi consolavo consumando i deliziosi “spunciotti” assieme a qualche compagno e ad alcuni ragazzi della sezione “C” e del “Commercio Estero”.

Non pensavo che il destino mi avrebbe ricondotto ancora in questo quartiere, dopo molti anni. E invece, dal 2001 al 2016, al civico 201 di Corso Santi Felice e Fortunato ha avuto sede il mio Studio di Consulenza Finanziaria. Sono stati anni molto difficili, impegnativi e, proprio per questo, stimolanti. L’inaugurazione è avvenuta con un “timing” perfetto: la settimana del crollo delle torri gemelle a New York. Il fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e delle meno famose, ma più devastanti per la nostra provincia, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, hanno segnato i periodi più complicati nel lavoro di assistenza ai clienti. Il fatto di essere uno Studio Indipendente mi ha sempre consentito di uscire bene da queste disavventure. 

Dietro alla palazzina c’è un ampio cortile interno, da cui si accede attraverso uno stretto passo carraio, isolato dalla via principale da un robusto cancello automatico in ferro battuto. Qui io e il mio collega avevamo i nostri comodi garage coperti. L’ignaro passante che transita per Corso San felice non immaginerebbe mai che, dietro alla facciata della palazzina, esista un mondo di attività commerciali e di Studi Professionali che si affacciano su un misterioso cortile. Ricordo il laboratorio di preziosi tappeti persiani, l’atelier di un noto antiquario, lo Studio dell’Ing. Beltramelli e quello dell’Arch. Stefani. Con molti di loro ci si incrociava spesso, in quanto la mia auto entrava e usciva dal garage molte volte al giorno. Ci si fermava a parlare amabilmente, durante la loro pausa caffè (o pausa sigaretta), nel silenzio del cortile, al riparo dai fastidiosi rumori dei clacson e delle sospensioni dei mezzi pesanti nel traffico del corso. Ogni tanto si alzava lo sguardo ad ammirare la splendida torre campanaria della Basilica di San Felice, in piedi da mille anni, che contrastava con quell’obbrobrio che gli umani avrebbero innalzato dieci secoli dopo: il condominio Everest dal lato opposto. Si chiacchierava del più e del meno, ma mai del proprio lavoro. Esisteva quasi una regola non scritta che vietava di entrare in questo campo. Sarebbe sembrato di guastare, contaminandolo, un momento che doveva essere di assoluto relax. Del resto, ognuno di noi sapeva bene di che cosa ci occupavamo, anzi, esisteva una profonda stima reciproca, avendo sempre sentito parlar bene l’uno dell’altro. Non vi erano mezzi parcheggiati sul piazzale, anche se qualche residente aveva diritto al suo posto auto esterno, delimitato da due righe bianche parallele sul cemento. 

Una mattina, appena richiuso il basculante del garage, mi fermo ad osservare il grosso fuoristrada parcheggiato nell’area di proprietà dell’architetto Stefani. E’ un vecchio Land Rover Defender (se ben ricordo). Sulla fiancata lato guidatore è indicato a chiare lettere il gruppo sanguigno del conducente. Il gancio da traino e il capiente portapacchi sul tettuccio indicano che non è propriamente fatta per il centro urbano. In quel momento esce dalla porta dello studio, quasi a ridosso del muso del Rover, l’architetto con la sua immancabile cicca in bocca. Quasi a leggermi nel pensiero, mi fissa, poi, togliendo lentamente la sigaretta dalle labbra, comincia a parlarmi con la sua inconfondibile voce roca, lenta e profonda:

Varda che no xe mia el Suv che ghe dago a me mojère par far la spesa al sabo al Supermarket!”

“So bene che sei un appassionato dell’Africa e dei “raids” avventurosi tipo “Parigi-Dakar”. Mi chiedevo soltanto se non fosse il caso, semmai, di cambiarlo, questo Defender. Mi sembra piuttosto datato.”

“Par dove che gò d’andare mi el va anca massa ben. No gh’in fa più robuste come sta qua!”

“Si, d’accordo, ma certe comodità sarebbero utili… che so… tipo l’alzacristalli elettrico.”

“Bravo! Quando el leon el te carica e te ghe el finestrin xo parchè te mori dal caldo, no te poi mia dirghe – SBANDIU el me se ga blocà l’alsacristai eletrico.”

“Hai ragione. Non ci avevo pensato. Ma, almeno l’alzacristalli a manovella…”

“Ah puìto! Bon queo! Varda che quqndo che te si in meso al deserto e la sabia la se incrìca fra el vero e l’interno dea portiera no te o movi più, el vero. Se el xe sarà a te mori dal caldo e se el xe xo, el leon el te magna.”

Non ne venivo fuori. Aveva ragione lui. 

Dalla Libera, varda qua.” Ci davamo del tu, ma ci chiamavamo per cognome. I nomi di battesimo non li abbiamo mai conosciuti. Stefani estrae le chiavi dalla tasca, apre la serratura con un giro del polso, entra e impugna una levetta a mano che sposta il vetro del finestrino e destra e a sinistra. “Vedito, co ‘sto sistema el vero nol se bloca mai, gnanca co la sabia. Manco roba elètrica te ghe intèa machina mejo xe. On toco de ricambio lo gò sempre drìo, ma la xe roba de mecanica. Come che no manca mai taniche de acua e de carburante. In tel deserto a no te ghe mia la stassion de servissio ogni diexe chilometri come in A4”.

Mi stupiva la capacità di esprimersi in dialetto stretto di questo noto progettista di grido, che ci teneva a ribadire la propria vicentinità, dimostrando una semplicità ed una schiettezza altrimenti insospettate.

Venni a sapere, in seguito, che l’architetto Stefani era molto impegnato in progetti di volontariato a favore delle popolazioni più povere dell’Africa subsahariana, che visitava spesso col suo fuoristrada, portando personalmente aiuti umanitari. Quella volta mi rimase impressa nella mente, perché mi insegnò che non sempre le cose sono come appaiono a prima vista. Bisogna conoscere prima di giudicare. Noi viviamo in un tempo in cui tutti si permettono di dire la loro, in nome della libertà di espressione, senza avere la minima conoscenza dell’argomento in questione. Oggi l’architetto Stefani non è più tra noi. E’ andato avanti, come diciamo noi alpini. Lo ringrazio per questa involontaria preziosa lezione di vita. Lo ricordo sempre con simpatia e affetto. 

Mi sembra si chiamasse Marco.

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