Un altro ricordo di San Felice abbastanza importante a mio avviso è proprio l’ospedale psichiatrico, che è adiacente alla Basilica di San Felice. Ora l’ospedale psichiatrico porta con sé tutta una serie di vicende per le persone… perché l’ospedale psichiatrico era frequentato insomma a quei tempi, sia dalle persone vicine che dagli ammalati che di fatto c’erano. Lì fra l’altro c’era una meravigliosa persona – un amico – che ho conosciuto che si chiamava… Un professore, lui era un dottore, un medico che curava gli ammalati psichiatrici e si chiamava Sergio Caneva. Lui credo sia anche arrivato ad essere vice primario di quella struttura lì a quei tempi, perché l’ospedale psichiatrico è durato praticamente metà della mia vita.
Mah sai lo sguardo di un bambino su una questione così è sempre uno guardo difficile perché proprio il livello di comprensione di un problema di quel tipo… devi crescere un pochino per entrarci dentro. Però io ci sono entrato un po’ prima su questa questione perché avevo uno zio dalla parte di mio padre che era un po’ squilibrato come persona… non era un violento eh! Perché attenzione tutti pensano che chi soffre di queste malattie sia violento. A quei tempi, diciamo così, quello era in manicomio dove c’erano i matti, punto. Mi spiego? Questo era un po’ il concetto. Nessuno del popolo conosceva la differenza di diagnosi, di motivazioni, di tipi di malattie.
Rispetto all’ospedale psichiatrico da parte di noi bambini c’era come un velo di protezione: “non si tocca l’ospedale e comunque attenzione perché dentro lì ci sono persone pericolose”. Non pensavamo mai di saltare – a differenza di altri posti in cui si faceva sempre – di saltare la mura e andare a giocare dentro l’ospedale psichiatrico. Mai fatto! Non lo facevamo mai, nessuno avrebbe mai pensato di fare una cosa di questo genere, non so se mi spiego, perché veniva considerato da noi bambini un posto, diciamo così, che non era per noi… e tutti lo sapevamo per cui c’era questo mantenimento della distanza tra persone e malattia, socialmente voglio dire…
Le giornate di visite si movimentavano per i parenti e qualche parente comprava dei prodotti nei negozi adiacenti all’ospedale per arrivare dalla persona ammalata con un aiuto… diciamo così a quei tempi. Per cui c’era uno scambio, una dialettica tra le persone che andavano a trovare gli ammalati e i negozi. Poi ad un certo punto – e qui non mi ricordo bene gli anni perché io ho cambiato quartiere, son venuto ad abitare qui a Santa Bertilla e conseguentemente non abitavo più a San Felice ma ho sempre frequentato San Felice – ad un certo punto c’è stata la possibilità di adeguare gli ammalati alla condizione sociale. Cioè davano dei permessi agli ammalati che non erano pericolosi socialmente per poter uscire, andare non so a comperarsi qualcosa, andare al bar…
Si, si… in chi stava fuori c’era l’idea di poterci finire dentro. Tanto è vero che qualcuno ci è finito dentro ed è anche uscito. Io mi ricordo una persona che aveva fatto la guerra in Germania. Lo chiamavano il Professore, ma non si capiva bene… non sapevamo Professore di che cosa. Aveva degli occhiali neri, scuri. I capelli tagliati cortissimi… sembrava uno delle SS per dirti. Perché a quei tempi i naziskin non c’erano e le teste pelate, almeno per quel che ricordo io, erano rare insomma no? Ma lui era uno di questi. Una persona assolutamente… e noi ci avvicinavamo, noi ragazzi, perché aveva questa mania: “Cosa mangi tu alla mattina?” ci chiedeva lui – ci chiedeva a noi 4-5 ragazzini – e noi rispondevamo caffellatte, tè… quello che prendevamo. “Io alla mattina invece mangio il muro di Berlinooooo”. Mi ricordo che c’era questa presentazione del personaggio per dirti…